Un milione di alpaca

Grindelwald, il Depp che meno mi piace, é con ogni probabilità il personaggio più simile a se stesso da lui mai interpretato. La parte oscura, l’esistenza allo stesso tempo degli occhi di due colori, eterocromia, il giorno e la notte, la luce e le ombre. L’avere il mostro dentro, che si manifesta e ingrassa dentro casa, affamato e vorace, di maledizioni, di insulti e di bugie. Non é reato lo stare male, sia chiaro, é assurdo il circo mediatico costruito a dovere per arrivare alla consapevolezza che due persone che un tempo erano una, possano arrivare a quel punto di non ritorno. Io tifavo per lui, per Jack Sparrow, per lo zingaro di Chocolat, per il bambino di Edward Mani di Forbice, per il visionario di Willy Wonka, per la follia del Cappellaio Matto e allo stesso tempo per tutti quelli che hanno visto e soprattutto riconosciuto allo specchio, il proprio mostro. Ieri lui ha vinto e con quella vittoria di pirro che forse gli dará una seconda possibilità, fatta di luce e di amici sinceri (come sembra avere per bontá sua), potrá tornare a farci sognare, magari sognando lui per primo. C’é forse chi potrá pensare che é stato anche l’unico epilogo per il quale l’uomo nero non c’é, lui vittima e lei vittima visionaria e bugiarda, l’uomo cattivo che vince contro la donna sottomessa. Lei ha modificato (é un fatto) una foto piena di metadati, direttamente dal cellulare, modificando l’esposizione e la saturazione, senza nemmeno fare uno screenshot che ne avrebbe cambiato nome e contenuto invisibile. Come minimo avrebbe dovuto chiedere a uno bravo di farlo per lei, anche un ragazzino smanettone magari, però giá quello la mette al livello in cui lei stessa si posiziona, della bugiarda patologica che per il fatto di mostrarsi debole sará al contempo vittima. Lui ha un dito in meno. Si sono fatti male entrambi prima e non ne usciranno indenni poi. Lui vince a metà, lei perde lasciando dubbi e debiti, considerato che quei soldi dice di non averli. La vita dorata dello showbiz ossida, ma anche questo lo sappiamo da sempre, copione conosciuto di un mondo che tutti vorrebbero ma che pochi sanno gestire e amare davvero.

Johnny, io con tutta la sincerità che albergo nel cuore, spero davvero che Disney riesca a farti cambiare idea, pagandoti 300.001 dollari e 1.000.001 di alpaca per tornare ad essere Jack Sparrow (cit.), o qualunque personaggio abbiano in serbo per te negli anni a venire.

l’Italia chiamò!

1982 – 2021

estate 1982, io ero a Perticara, il paesino dove nacque nonna Lea, il luogo del cuore dove erano la metà delle mie estati di bambino.

Faceva caldo, me lo ricordo. Quell’undici di Luglio ero in braghe corte e quel giorno era domenica. Me lo ricordo non so come, considerato che in vacanza é sempre domenica e da bambino di più, forse era per la focaccia con la mortadella o per la Santa Messa.

Non ricordo che ora fosse, quando mi sono voluto forsennatamente inventare una bandiera dell’Italia. Un sacchetto di plastica verde e uno di plastica bianca, un pezzo di carta da regalo rossa, abbastanza stropicciata a dire il vero, una canna ingiallita e del nastro adesivo trasparente. Ci ho lavorato un po’, in un tempo in cui non ti rendi conto bene come passa il tempo, fino ad ottenere un rettangolo rabberciato di rifiuti riciclati e sogni.

A dire il vero non sapevo nemmeno bene cosa stesse succedendo, il calcio non era proprio il mio sport preferito e tantomeno il seguire una squadra, ma l’Italia era un’altra cosa. Il nonno Ugo fomentava sogni e io rispondevo.

Ricordo la sera imbrunire, le porte aperte sulla strada, la gente in piazza, il volume della tv che arrivava da non so dove, non ricordo ci fosse la tv a Perticara quando ero bambino, non si aveva tempo per stare dentro casa. La vita del paesello che cercava frescura e al contempo tifava tutto per una cosa sola.

Avevo le gambe sporche e le mani sudice, insieme alla canottiera bianca. La bandiera in mano che complice il pezzo di carta rossa non sbandierava nemmeno a pregare e le giunture dei suoi elementi deboli nel caldo, nella plastica e nel sudiciume di un bambino di dieci anni.

Non avevo idea dove si giocasse la partita, Madrid allora era un nome strano di un posto che non conoscevo, non sapevo quasi chi ci fosse dall’altra parte, la Germania era un termine più facile, non ricordo il 3-1, ricordo le urla.

Ricordo il correre forsennato su e giù per la strada della chiesa, senza i pensieri e con la gioia nel cuore di non sapere che succede mentre la carta rossa si rompeva rovinosamente senza infrangere i sogni.

Gridavano tutti, gridavo anche io, la felicità é contagiosa, come fosse una immunità di gregge, uno dopo l’altro pieni di endorfine.

Ieri sera non ho gridato, però porca vacca se mi sono divertito, senza bandiera, in uno luogo la quale capitale guarda caso é Madrid, fino ai calci di rigore e con un sorriso un po’ ebete, mentre ascoltavo i clacson suonare fuori della finestra e i fuochi d’artificio esplodere per una grande impresa che fa stare bene un po’ tutti.

Grazie azzurri, perché quando ci vuole ci vuole: Stringiamoci a coorte, l’Italia chiamò! Viva l’Italia!

una Domenica di pensieri Ordinari

Tulipano Africano

vivi in un Paesino sperduto sul fondo di un barranco a Ovest dell’isola dell’eterna primavera. La tua famiglia ha un ristorante, di quelli di sempre, che non cambiano mai, né dentro né fuori. Tu fai un viaggio all’estero, forse due o forse nessuno, o guardi su internet e Masterchef in televisione e in un anno di tregenda provi a reinventarti. Prendi il locale, gli aggiungi un nome nuovo, ti inventi un menú perfetto, aggiusti i prezzi a quelli di un mercato difficile, alti, nonostante tu sia rintanato in un paesino ai confini del mondo. Fai il grande passo, investi nei tuoi sogni, con la tua famiglia, in quello che é sempre stato. Cambi le sedie, ricami sulla tua divisa il nome nuovo, con sotto una frase “creando placer”, aspetti sia domenica di nuovo e l’avventore che ti ha prenotato un tavolo su The Fork.

Non cambi nulla, non pulisci il locale, non aggiusti le porte dei gabinetti, non rinnovi niente, tranne aggiungere il nuovo nome sulla lavagna interna. Monti due porte basculanti di metallo, ricoperte di edera finta per nascondere i bagni, quello sí. Questo é quello che io vedo quando arrivo. Il locale é poco pulito, azzarderei trasandato, con due profumatori automatici a spruzzo che inondano il locale di aromi che in cucina devono solo coprire altri odori. Ho fatto 40 km per arrivare quassù, il locale accanto é peggio del tuo, la strada é arsa dal sole anche tra le montagne, non sarà peggio di altre volte e anteprima, no non lo sarà.

Quando decido di sedermi all’interno non so dove appoggiare la borsa, la mensola sotto la tv ricovera più salme d’insetti di un laboratorio tassidermico, guadagno una sedia e la uso come appoggio. La tua cameriera, aiutante in primis, con le unghie lunghe gialle fluorescenti di smalto, brillantini e resina, pulisce un tavolo poco più in lá. Lo igienizza. Io la guardo con il desiderio di suggerirle di passare lo straccio sulle mattonelle del bancone, della colonna, blu e rosa antico, fuga nera. Mi trattengo nel dirle e nel dirti che i bagni sono ridotti come le latrine di un campo militare, che le luci del soffitto sono piene di insetti morti.

Vieni al tavolo e con un sorriso mi chiedi cosa voglio mangiare, mi dici cosa non c’é e cosa c’é. Prendi appunti, mi porti una bottiglia di Tajinaste delle Isole Canarie e mi servi ció che abbiamo concordato. Senza tovaglia, con le posate su un tovagliolo di carta, il menú plastificato e i piatti in colonna ordinata che girano dai 10 ai 19 euro, ciascuno. Pretenzioso, senza alcun dubbio.
Mi inviti ad un assaggio di formaggio elaborato che fai tu e la mia testa si rasserena, posto orrendo ma ben che si mangia. Non avrei detto nulla, avrei mangiato, perché ho mangiato, avrei bofonchiato con il conto, ma avrei tenuto per me i pensieri relativi al cibo. Mi avrebbe dato noia, arrivare fino a qua e mangiare cosí cosí, ma ogni volta é un’avventura e di avventura si vive. Invece no, mi hai chiesto come va, ad ogni piatto consegnato.

Mi hai chiesto se avevo un ristorante, quando ti ho spiegato perché il secondo antipasto non andava bene, che non era cattivo ma non era quello che sarebbe potuto essere.
Ti ho risposto che non ho un ristorante, ma mangio, molto e bevo altrettanto, senza badare al prezzo, se ne vale la pena. Ti ho detto che ho mangiato e visto posti che tu probabilmente non sai che esistono, ti ho detto ogni cosa che mi hai chiesto, ogni difetto e ogni pregio, l’hummus di datteri era da primato.
Ti ho chiesto chi aveva disegnato il menú e mi hai risposto: io.
Ti ho chiesto chi cucinava e mi hai risposto: mia moglie.
Ti ho detto che non c’era amore nei piatti, che non c’era la cura nel farmi provare piacere.
Ti ho detto che i gusti erano buoni ma le realizzazioni erano scarse.
Mi hai ascoltato e mi hai chiesto scusa, io ti ho detto che non c’era problema, ti avevo detto quello che ti avevo detto perché me lo avevi chiesto. Ti ho detto che uno che porta sulla giacca una frase cosí piena di ispirazione, non può non averla messa nei piatti che ha fatto lui. Mi hai detto che hai capito.
Mi hai offerto un bicchiere di vino dolce, una prelibatezza.
Mi hai portato il conto, dove hai messo la bottiglia di vino e l’acqua. Niente altro.
Non ero d’accordo, sono venuto al banco, chiedendoti di fare il conto per bene, che il mio fine non era quello di non pagarti, altrimenti avrei taciuto.
Mi hai detto che il titolare sei tu e quindi decidi tu.
Mi hai detto che state provando a reinventarvi una possibilità, ma state imparando, mi hai detto che non farai finta che quello che ti ho detto non te lo abbia detto.
Mi hai detto che speri di potere recuperare in una mia prossima visita, con un’esperienza culinaria come quella che vorresti dare e che oggi non mi hai dato.

Ti ho salutato con un arrivederci, che non so se lo sarà, ma vivaddio lo sia, in un modo migliore, in un momento migliore. Trovando i sapori del cuore e dell’anima, che cerca di costruire il suo futuro correndo dietro ai suoi sogni, cosí come ho fatto io.
(Il torrone di formaggio con frutta secca é uno spettacolo.)

l’assenza della Ragione

Gran Canaria

Santi Crisante e Daria martiri, 25 ottobre 2020.
Il giorno del chiudiamo quasi tutto, che tanto i buoi sono già scappati, cosí quei pochi asfittici che sono rimasti indietro, fanno in tempo ad arrancare fino all’uscita e a fotterci di nuovo, lasciandoci soli.
In tutto questo disastro, nonostante tutto, le isole Canarie, tutte, sono in semaforo verde, senza particolari restrizioni di orario e di coprifuoco, mentre restano valide l’uso della mascherina, il distanziamento sociale e il numero ridotto di partecipanti alle riunioni mangerecce. Insomma siamo l’unica “regione” di Spagna che non ha le restrizioni imposte a tutto il resto del paese, nonostante la riattivazione dello stato di allarme.
Non siamo stati bravi, sia chiaro, siamo stati fortunati.
Siamo stati soli, perché siamo semplicemente isole con un numero irrisorio di persone per chilometro quadrato che a marzo sono state svuotate in 4 giorni. Una epurazione turistica vera e propria.
Ora, entrando nello specifico, a parte il fatto che il mio essere mondano si riduce a vedere clienti in uno show-room di 500 metri quadrati (poca, visto che lavoriamo praticamente solo su appuntamento) e il mio gironzolare ad andare a piedi in negozio la mattina alle otto quando praticamente tutti dormono, o la sera alle nove vicino l’oceano che pare non piaccia nessuno tranne a me, mi chiedo cosa ne sia del resto, del resto della gente.
Qua si vive di turismo, di una percentuale altissima che definirei bulgara. Da mesi il turismo langue, gli hotel sono chiusi, i ristoranti sono semivuoti, tranne quelli che sono bravi e lavorano anche con gli isolani e quindi va bene. (va bene poco, considerato che resistono a basso regime)
Da mesi si piange perché gli altri stati hanno “sconsigliato” i viaggi, tutti annullano le assicurazioni minacciando di abbandonare i propri cittadini come non hanno fatto a marzo, a parte l’Italia che ha proferito con un’assenza indegna, un laconico arrangiatevi.
Invece tutto a un tratto, cambia tutto. Da ieri, Inghilterra e Germania e compagnia cantante scandinava hanno proferito, “Va bene miei cari cittadini, potete andare, potete tornare al tropico. La Macarnoesia vi aspetta, loro là stanno bene, andate e state bene anche voi, sennò qua tra freddo e buio, vi suicidate tutti. Salite in aereo a frotte (quando li rimetteranno) e andate a impestare le isole dei beati.”
Impestare, parola non a caso, data dal fatto che secondo i geni di chi comanda e butta fuori DPCM o BOE come nulla fosse, il test lo deve fare l’albergo, a carico dell’albergo, quando il turista arriva.
Ora, un ragionamento semplice. In quanti ottempereranno all’ordinamento immediatamente? E anche nel caso lo facessero, se UNO solo dei nuovi arrivi risultasse positivo (magari asintomatico cosí ha passato i controlli temperatura) cosa fanno, svuotano l’albergo? Di nuovo? Ributtano tutti sullo stesso aereo che è arrivato da un giorno e che dopo quattro ore di volo sarà un coacervo di coronavirus che sí, i virus sí, loro faranno festa?
Cosa ne sarà di quelli che arrivano con i voli di linea per risiedere nelle case in affitto, regolate dallo stato, di proprietà di privati o semplicemente a casa loro nella seconda casa al tropico?
Io mi domando e dico, da uomo normale, normodotato di cervello e di pensiero, ma inserire come protocollo di viaggio il presentarsi nell’aeroporto di partenza con un test valido (72 o 48 ore siano) da consegnare insieme al documento di riconoscimento, altrimenti nemmeno ci entri in aeroporto, ma ti fermi al check-in?
Non e’ venuto in mente a nessuno? Ma davvero? Non ci redo.
Perché devi delegare a un albergo (o assurdamente a un privato) a 3000 km da casa tua, un test che ogni compagnia aerea potrebbe inserire nel costo del biglietto, quale requisito, tanto risulterebbe irrisorio fatto in massa? (No perché, non so come dirlo, ma il foglietto delle dichiarazioni di buona salute, ora di 4 pagine, il da dove vieni e dove vai, non serve a una benemerita fava. Se stai male e sali in aereo ti metto in galera, sarebbe un buon incentivo alla veridicità dei fatti.)
Perché il problema deve arrivare ingrassato, in un luogo di vacanza, magari con una capacità ospedaliera meno performante del necessario, portando con sé alte probabilità di contagio dai viaggiatori stessi?
Perché la responsabilità non diventa un diritto oltre che un dovere?
Le problematiche sono le medesime a qualunque latitudine o longitudine ci si trovi, sia chiaro, le soluzioni anche. Perché lo screening viene fatto a richiesta del viaggiatore, online al ritorno, presso una AUSL che poi lo chiama solo se rompe i maroni più volte, mentre l’utente non sa se stare a casa o se andare a lavorare che magari, cosí per fare, deve guadagnarsi lo stipendio?
Che senso ha sperare in un vaccino, che senso ha chiudere, che senso ha “state a casa se non dovete andare in giro” quando bisognerebbe davvero fare uno screening massivo ragionato?
Perché non si agisce e si mettono toppe? Ovunque sia chiaro, in Spagna, in Italia, nelle aziende, nelle attività. Perché procrastiniamo ad libitum una scelta vera, sperando che non succeda quello che sta già succedendo?
Dov’é la ragione? Dové il raziocinio? Dov’é il buon senso?
In tutto questo disastro, in questo mondo che collassa crollando su se stesso, dove sono i buoni propositi realizzabili?
Non serve voltare la testa, mai.
Il mondo gira sempre dalla stessa parte, il tempo va sempre e solo avanti, la mascherina va messa su naso e bocca, le discussioni sterili sono inutili, tutti moriamo un secondo alla volta.
Cosí non va bene e io non so come fare, perché ci vorrebbe poco per essere tutto e invece sono niente, in questo mare d’incertezza e d’inettitudine che mi circonda.
“Crisante e Daria furono seppelliti vivi perché non avevano voluto rinnegare il proprio credo e il proprio pensiero. Non avevano voluto mettere la testa sotto la sabbia, diventata il loro martirio.”

Questa foto non esiste.

91913816_10222439351082546_3146950931807993856_o.jpgVolevo regalarti una foto di te e di me e volevo ci fosse tutto insieme a noi, gli anni, i sorrisi e le labbra sottili. Volevo ci fosse l’oceano, perché se é vero che siamo fatti per il 65% di acqua, tu sei una gran parte di me e l’oceano lo é insieme a noi. Volevo ci fosse l’orizzonte fatto di cielo e di onde, volevo ci fossero il rosso, il blu e i tuoi brillantini, volevo il sole e i colori del nord.
Avevo una foto, una tra mille che poteva andare, per te e per me, ma non era del tutto giusta. Quel giorno di tre anni fa a Moya era nuvolo, ci ho portato il cielo di nuvole zingare di un anno dopo, una parte di orizzonte era el Pagador, ci ho trascinato le onde dell’oceano come a girare la testa verso nord, l’ho fatta com’é, arrivando a quello che siamo.
L’ho fatta per te, come tu hai fatto me, cesellato in ogni pregio ed in ogni difetto, cullato per otto mesi e qualcosa di più in quel mare che per me hai costruito e che sempre mi farà sognare, tanto simile da essere assonante, tanto libero quanto complesso.
Questa foto non esiste ma può essere, presente nei ricordi di momenti diversi, nutrendosi di desideri e cullandosi di serenità.
Buon compleanno mamma.

il Futuro che Sará

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non Ce la facciamo proprio, siamo una razza che non capisce, che non ascolta, che fa di tutto per inventarsi una maniera o più di una per aggirare un ordine, un divieto, che cerca scappatoie, sempre.
Siamo gente che ha tutto ma che non sta mai bene, che quando lavora vorrebbe stare a casa, che quando va in vacanza si stanca, che quando puo’ stare a casa vuole uscire, che quando deve avere pazienza non sa aspettare. Siamo gente che quando deve fare le cose agendo velocemente non inizia perché non ne ha voglia, perché lo puo’ fare domani, perché sa che lo farà qualcun altro o almeno lo spera. Siamo tanto e cosí pieni di noi che nella testa siamo invincibili, che non pensiamo perché cosí non ci ammaliamo, che non seguiamo una direttiva se non sotto coercizione e minaccia. Abbiamo paura, una paura fottuta e atavica di morire, di sparire non lasciandoci nulla dietro. Temiamo la morte, ma non la guardiamo e quindi spilliamo terrore all’avvicinarsi della malattia, che diventa tale solo quando ce l’abbiamo davanti alla porta, perché se succede dall’altra parte del mondo non é un problema nostro. Abbiamo paura del non essere senza renderci conto che per superarla e gestirla dobbiamo prima di tutto essere, in ogni attimo, in ogni scelta, in ogni parola, in ogni gesto. Diciamo agli altri cosa devono fare, mentre noi siamo i primi a non farlo, dispendiamo consigli, diamo suggerimenti, regaliamo perle di saggezza che non useremo mai per noi stessi. Predichiamo bene e razzoliamo male, siamo sepolcri imbiancati, facciamo quel che facciamo e non facciamo quel che diciamo, siamo fallaci, spesso inutili, ingrati e talvolta indegni. Siamo ombre su di una sfera infinitesima che gira sospesa in un cosmo infinito, che rifiutano la luce perché sotto la luce le ombre svaniscono. Siamo spaventanti, ma non abbastanza per cambiare rendendo merito alla ragione, al vivere comune, al compagno di vita, di viaggio, di lavoro. Non sappiamo aspettare.
Non ce la facciamo, ma possiamo farcela, possiamo cambiare.
Poco a poco, un pezzetto alla volta, un sorriso per volta, un dovere alla volta. Possiamo cambiare strada e tornare ad essere noi, cantando dalle finestre, tendendoci una mano, aiutandoci quando serve e regalandoci sorrisi. Possiamo essere di nuovo buoni, senza essere per forza amici. Incominciamo da qui, torniamo a stare bene con noi, torniamo a stare nelle nostre case, apriamo le finestre, lasciamo che il sole c’irrori di fotoni, lasciamoci vivere, con il sorriso del domani e la serenità di oggi, in attesa di un futuro che sarà. #yomequedoencasa #iostoacasa

il Contrappasso della Ragione

coronavirus

sei Anni fa sono emigrato sul Tropico del Cancro, letteralmente.
Ho impacchettato la mia vita dentro un container, ho scelto con difficoltà 100 libri tra la moltitudine, sono salito su una macchina carica di oggetti e di sogni e sono partito da Bologna verso Genova, poi Barcellona, quindi Toledo, Cadice, Arrecife, finalmente Las Palmas e per ultimo Playa del Inglés.
Sono partito con un lavoro, che grazie alla fiducia del proprietario dell’azienda e dei miei colleghi mi sono portato dietro, con 20Mb di doppino telefonico Vodafone, un cellulare 3G e la conoscenza di una vita passata insieme alla tecnologia. Avevo 19 anni quando i miei genitori mi comperarono il primo 386DX, ne avevo 21 quando imparavo ad assemblarli e ad installarne il sistema operativo, ne avevo 14 quando usavo un Commodore 64, quando lo smontavo e quando le notti si facevano mattina con la caparbietà della curiosità indomita, tutta mia. Non fa curriculum, ma fa vita.
Poi, con il tempo, di lavoro me ne sono creato un altro, un anno fa ho creato la mia azienda, Paralelo28 design, perché il Tropico del Cancro e’ sul parallelo 28, e di nuovo ho cominciato a costruire sogni, prima miei, poi dei miei clienti, a volte da solo, a volte con amici e collaboratori.

Non  e’ che sia stato facile gestire quei 5 anni in giro per il mondo, con la testa mezza al tropico e mezza a Bologna, e come con i chilometri non e’ stato semplice gestire la quantità di dati, che oggi sono dentro un cloud un po’ per ogni dove, ma che una volta dovevo portarmi dietro, in  qualche modo, insieme alle mie cose e ai miei sogni.

La “mia scelta di vita” sul lavoro non mi e’ mai stata risparmiata, mai, da una mescola eterogenea di quelli che mi rimproveravano, che mi avrebbero ucciso, quelli che mi hanno invidiato, quelli che mi hanno detto hai fatto bene, quelli che mi hanno detto ti ammiro, quando io non avevo bisogno di nessuno di questi sentimenti perche io quel viaggio l’ho fatto per me, non per qualcun altro. I miei genitori invece sono sempre stati al mio fianco, non mi hanno rinfacciato nulla e mai accusato di nulla. La nonna ogni tanto mi chiedeva se ero felice, io le dicevo di si, lei mi chiedeva se ero sicuro e finiva li. Vivevo “all’inferno”, ma se ero sereno, andava benissimo, anche per lei.

Ho imparato a districarmi tra VPN, peertopeer, iCloud, Drive, One Drive, Dropbox, Skype, Hangout, TeamViewer, FaceTime, Anydesk, Filezilla e qualunque altro sistema ragionevole e possibile di conferenza, videoconferenza e condivisione, ho imparato a usare le mail come si devono usare, con i cc necessari e i ccn praticamente inesistenti, perché a mio avviso non andrebbero mai usati.

Ho imparato a buttare giù le ore di viaggio, le attese, la stanchezza, ho imparato a gestire lo stress, a incazzarmi quando necessario e non sempre, ed é stata durissima, a godere dei sabati dell’arrivo e a soffrire delle partenze anche quando ancora erano lontane. Ho imparato a gestire il mio tempo, le mie vacanze, le scadenze, gli appuntamenti, la vita.

Ora, in questo momento cosí inverosimile che ci troviamo tutti a gestire, ragionevolmente preoccupato di un mondo che preferisce non gestirsi, ogni tanto mi trovo a ripensare a questi 2190 giorni e un po’ sorrido. Sorrido nella consapevolezza del disastro che ci gira intorno, che arriva senza fartelo sapere, che si fa presente un po’ come gli pare, che non sai da dove arriva davvero, perché mi devo ricordare che sappiamo solo quello che ci vogliono fare sapere, nulla di più.

Io sono sereno. Sono sereno come lo ero quando me lo chiedeva la nonna, perché alla fine sono certo che se useremo la ragione ce la faremo. Sono sereno perché io la uso, non esco di casa se non mi é necessario, anche se ho il mare a due passi, anche se la primavera al tropico e’ uno spettacolo, anche se l’azzurro chiama ma che ragionevolmente so che chiamerà anche domani.

Guardo fuori della finestra, guardo l’oceano blu cobalto e l’aria che é tutta un fremito di luce e di colori. La gente sta sulla terrazza, guarda di sotto lasciando che il tempo passi, ascolta il silenzio, qualcuno fa ginnastica nel suo giardino. Per la strada passano tre anime all’ora, una porta il cane a fare la pipí, altre due fanno la spesa del piccolo Spar sotto casa. Su una strada centrale come la mia é inusuale, il silenzio é quasi inverosimile, sembra una città disabitata, sembra El Hierro e lo spettacolo della natura, il silenzio.
Torniamo a sentire il suono del silenzio, il profumo dell’aria senza tubi di scappamento che lordano l’azzurro. Stiamo tornando a vivere, mentre la paura e la morte si fanno vicine. E’ un ossimoro presente, ai tempi del coronavirus, che per assurdo va verso la direzione dove voleva andassimo tutti la piccola Greta, che con i suoi modi da spavento ci terrorizzava ma che ora ha la sua ragione, il cielo e’ più pulito, pieno di virus potenzialmente mortali, ma limpido. Gli uccellini cantano fuori della finestra, lo fanno sempre, ma li sentiamo meno, ora é un cantico dei cantici.

Sorrido consapevole che alla fine avevo ragione io, per assurdo insieme a Greta. Che si può lavorare a distanza senza essere per forza seduto a una scrivania, che non e’ vero che se non sei lí stai bevendo uno spritz sulla spiaggia, o forse sí, ma se lavori e produci a chi importa, a chi deve importare? Sono consapevole che se non avessi fatto “la mia scelta di vita” tutto questo sarebbe più difficile, per tutti e per ultimo per me. Se non avessi voluto con tutto me stesso quello che ho avuto, a quest’ora sarebbe semplicemente più complesso.
Non ho mica vinto niente, sia chiaro, non e’ una gara, perché vincono tutti, dobbiamo vincere tutti, ma e’ una piccola rivincita per un’anima inquieta come la mia.

Lo smart work non l’ho inventato io, ma sicuro io l’ho fatto diventare reale nel mio mondo. Tutte le rivoluzioni iniziano dalla testa, e se la testa c’é, beh evviva l’azzardo.
Ho giocato sul numero giusto e di nuovo, avevo ragione io.

P.S. Ora vedete ben di stare tutti in casa sereni, fino a quando sarà necessario.

Aramageddon

armageddon.jpgil Giudizio Finale non ci lascia scampo, arriva, quando meno te l’aspetti, perché il tempo ti prepara all’ineluttabile, ma quando arriva é sempre troppo presto. Il questi due mesi e dieci giorni dell’inizio del 2020, anno bisesto, anno funesto, abbiamo visto i segni del cielo. Io nel mio piccolo, in questo sperduto pezzetto di terra sul Parallelo28 ho visto in una sola settimana, la tempesta di sabbia, la pioggia di sangue, l’invasione delle cavallette. In questi primi mesi dell’anno abbiamo visto due superlune dalle grandi maree brillare in cieli che gridano all’apocalisse, e oggi vediamo un morbo che sa di genocidio espandersi a macchia d’olio per ogni dove, infettando sí il corpo, ma devastando il cervello. Il genere umano ha paura, non impara praticamente mai, utilizza escamotage aberranti per raggiungere fini che non servono a nulla tranne che ad apparire panacea per mali che non esistono. Non prende in considerazione vera il problema, lo lascia scorrere e si lascia attraversare fino a quando é tardi, perché lo é sempre, e allora ha paura. La paura scellerata di non essere, il terrore di essere quel che si é perche allora sí che facciamo paura davvero, a noi stessi per primi, gli unici fantasmi che ci portiamo appresso per sempre. Bisognerebbe sapere muoversi quando serve davvero, seguire la corrente e quando é il momento approfittare del guizzo per risalirla d’un tratto, per tornare al posto dove vogliamo essere, perché solo i pesci morti seguono la corrente, ma sono quelli ragionevoli che ne sanno approfittare al meglio. Ora é il momento della ragione, non domani, oggi, altrimenti sarà l’armageddon, della mente, del pensiero comune, della vita cosi come la consociamo e, che ci piaccia o no, é la nostra. Bisogna che impariamo a respirare, a restare sospesi in nell’attimo che ci fa prendere consapevolezza e ragione, non abbiamo scelta, o non avremo scampo.

i Tre Re

itrereuna Storia racconta, che tre Re saggi partirono dall’oriente seguendo il levarsi della stella Sirio nel cielo di fine autunno, quando durante il loro cammino il cielo si accese di luce e una stella mobile, una cometa, li accompagnò fino ai confini del mondo per vegliare sulla nascita del Salvatore.
I tre Re erano Baldassarre, Gaspare e Melchiorre. Per ricordarli nel tempo, perché grazie a loro la grandezza del Signore divenne terrena, gli vennero regalate tre stelle come grandi conoscitori del cielo, Mintaka, Alnilam e Alnitak, nella costellazione di Orione, il cacciatore, del quale ne divennero la cintura.
Le stesse tre stelle furono nei secoli la bussola e il faro per raccapezzarsi nella circumnavigazione del globo e per le scoperte marittime di lá dall’oceano, accompagnando i marinai fino al nuovo mondo. Nei paesi ispanici infatti, si conoscono come La Niña, La Pinta y La Santa Maria, le tre caravelle di Cristoforo Colombo che nella costellazione, alta in cielo nei mesi invernali, invece di una spada, come nella raffigurazione classica, porta il cannocchiale.
Questa é stata la mia Epifania.

i Tre Re
come caravelle in un mare di stelle
acrilico su tela 120×60

l’Alba del Giorno dopo

IMG_3873.jpgil Carnevale, “Durante le feste dionisiache e saturnali si realizzava un temporaneo scioglimento dagli obblighi sociali e dalle gerarchie per lasciar posto al rovesciamento dell’ordine, allo scherzo e anche alla dissolutezza.”
E’ l’incipit di Wikipedia che giustifica lo scempio che di un luogo può fare l’uomo, sia esso la sua terra, la sua casa o il suo corpo, durante il periodo di carnevale. O almeno, è la rappresentazione storica e oggettiva dell’evoluzione di un culto che arriva dal nostro trapassato remoto, che porta con sé rinnovo e astinenza, cose che al nostro tempo passano in secondo piano rispetto la ricerca estenuante del divertimento che non c’è.
Non abbiamo più rispetto per nulla, per la casa degli atri, per il lavoro degli altri, per il tempo degli altri, e immancabilmente c’inalberiamo quando quel rispetto che non diamo, non ci viene riconosciuto.
Fuggiamo dalla vita di tutti i giorni, verso fine settimana e festività portate al parossismo, con il solo desiderio di festeggiare, dimenticando quello che era ieri e quello che immancabilmente sarà domani. Fuggiamo verso notti che non finiscono per lasciare dietro di noi i pensieri, zavorre così grandi che però, ci ritroviamo accanto quando l’euforia scema e quando la consapevolezza torna, il mattino dopo.
Ci ritroviamo così, avvolti in un noi stessi che è troppo pesante, senza il desiderio vero di di cambiare qualcosa e sperando che il resto del mondo lo cambi per noi.
Come puoi pensare cambi qualcosa, se il primo che NON cambia qualcosa sei tu?